OMAGGIO a DINO BUZZATI
(Giancarlo Serafino)
Sette piani
Guardare la città dal settimo piano
è come sentirsi ancora dentro l’alveare
ora che sono in una stanza d’ospedale
e mi manca la gente per conforto.
E anche dal sesto piano, traslocato
per cortesia, la città non mi è del tutto
scomparsa, la tocco ancora mia
anche se con muraglia più alta.
Ho cominciato ad essere inquieto
invece al piano quinto, luogo che non
m’apparteneva, ma mi sembrò tanto
sincera l’accoratezza dei medici, che vi scesi:
- Signor Corte, questa è la corsia più attrezzata!
avrà cure specialistiche e sanerà tanto fretta
dal suo piccolo fastidioso malanno, che di sicuro
prima della fine dell’anno sarà a casa!-
E poi, e poi non so come son precipitato
al quarto, al terzo, al secondo sempre con
l’idea che dovevo risalire, in fondo
avevo poco da spartire con i moribondi
del primo piano…
In fondo avevo poco da spartire con
i moribondi…
In fondo avevo poco da spartire…
In fondo…
Bastiana
Dov’è la mia Bastiana!
Non vedo cavalli
in fondo solo polvere,
cavalcature forse?
O nubi di schiuma evaporate
come le frantumate ore
delle mie notti
rossi chicchi di melagrana
sparsi sulla tovaglia di Purusha
e poi i giorni, ed ancora le notti
e i giorni, tempo deformato
dall’attesa, alterazioni ciclotimiche
nei labirinti degli specchi.
Ed ecco sono qui con Lei
che mi dorme accanto,
un’evanescenza lunare
meno reale della sofferenza
della bestia che fluttua nel sangue,
della lama ingoiata, della ragione
che langue accecata dalla noia,
o mio petto di brividi, partoriscimi
nel verbo, tu che vibri in solitudine!
Dov’è la mia Bastiana!
E la giovinezza? La danza degli zingari
tra le rovine sulla torba: ricordi?
Ricordi che sprangammo al vento
porte su porte correndo correndo
e chiudendo chiudendo…
ed il vento ci segue ancora!
Raggiungerò la mia Bastiana
quando si calmerà il vento?
Il mantello
- Togliti il mantello
che io veda la tua bellezza
l’uomo che ti feci
avvizzendomi il capezzolo,
le membra che levigai
con la cura delle carezze.
Togliti il mantello o benedetto!
Quando tu partisti soldato
ho piantato un albero di gelso
vieni a vedere quanto è cresciuto
ma il mantello…
togliti il mantello figlio mio
ora è tempo dell’abbraccio:
per ogni ramo
che vedi intrecciato verso il cielo
ho pregato e asciugato il pianto
consumandone le foglie.
Togliti il mantello
che io veda la luce del tuo corpo
perché io tocchi il tuo petto
ed il tuo viso tanto pallido.
Troppo ho sospirato
in questa casa al buio,
togliti il mantello ora che ci sei,
che sei tornato figlio mio,
figlio immacolato -
-Madre devo di nuovo andare,
guarda dietro l’orto c’è chi mi aspetta
ed è qualcuno a cui non piace aspettare,
madre santa devo andare,
andare, proprio andare! -
Nel cielo volavano corvi
e fu un attimo: dall’aprirsi del mantello
un colore nemico delle madri
si allargava sul costato: il vermiglio
sputo di un nemico sconosciuto,
un altro figlio che nel fatal attimo
invocava anch’egli la madre.
Sei davvero sorprendente Giancarlo. Camaleontico. Puoi cambiare stile come vuoi ed essere sempre al massimo.Questa volta hai voluto avvicinarti a Dino Buzzati di cui riconosco nei tuoi versi le doti trasfiguratrici del suo narrare, il suo trasformare in simboli di un' universale condizione umana luoghi, come le selve e montagne desolate in un romanzo che lessi tempo fa : Barnabò della Montagna" , e come tu fai con i vari piani di un ospedale. Quel precipitare verso il fondo mi ricorda in qualche modo Kafka e il ripetersi da incubo dei versi finali evocano simbolicamente la speranza che non vuol morire, neanche di fronte alla morte. Mi sei piaciuto molto. :-))
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